Salvate dal marciapiede dall’Associazione Giovanni XXIII
In una piccola folla multicolore, il gruppo di ragazze che cerco non è subito facile da notare. Sotto i padiglioni del mercato di Porta Palazzo, in sé un simbolo della Torino multietnica e complessa, si sta svolgendo la festa conclusiva dell’esposizione che ha celebrato il trentennale dell’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, voluta e fondata dal compianto don Oreste Benzi. Diversi pannelli fotografici illustrano con la forza delle immagini e la pregnanza delle parole i vari ambiti di attività in cui don Benzi ed i membri della Comunità esercitano il loro servizio al Cristo presente nei fratelli: dalla vicinanza ai tossicodipendenti alla protezione della vita nascente e morente, dall’accompagnamento delle persone disabili all’impegno contro la tratta delle schiave di oggi, dall’affido familiare all’intervento in molte altre situazioni di sofferenza e disagio. Intorno al palco sciamano bambini di tutte le provenienze, molti dei quali hanno delle bellissime farfalle dipinte sul volto al modo del Carnevale di Venezia: sospetto sia opera dei clown che di solito portano i loro sorrisi negli ospedali. Più in là, una dozzina di ragazzini dal Kenya, al seguito di Padre Kizito Sesana, stanno provando i loro spettacolari numeri acrobatici, in cui portano i ritmi sfrenati della loro terra e l’abilità di un lavoro costruito con pazienza infinita, segno a sua volta di una “risurrezione” globale delle persone di questi ex bambini di strada. Gruppetti di persone gesticolano animatamente: sono conversazioni vivacissime nella LIS, la Lingua Italiana dei Segni, nella quale anche una poetessa sordomuta regalerà un frammento di bellezza a tutti gli astanti. Tante famiglie, numerose e serene, formano crocchi qua e là, leccando gelati e giocando con i palloncini. Finalmente il mio sguardo si posa su un gruppo di donne africane, tutte vestite con abiti simili e molto raffinati, che esaltano l’armonia e la bellezza delle loro persone.
Alcune hanno volti incantevoli, sia per l’oggettiva finezza dei lineamenti, sia per la luce che promana dai loro sguardi; in altre scorgo uno sguardo ancora molto sofferente, e qualcuna ha il viso deturpato dalle malattie e dalla sofferenza. È difficile non notarle, comunque: stanno cantando a squarciagola un canto alla Madonna, “There is a woman I love so much”, accompagnandolo con il ritmo travolgente e l’impareggiabile grazia delle danze africane. Mi colpisce notare l’impressione di profonda serenità che i loro gesti trasmettono: sono movenze estremamente femminili, eppure profondamente armoniose e pure. Da alcuni sguardi traspare una profondissima consapevolezza, dignità e maturità, unite ad un’altrettanto profonda gioia e felicità. In mezzo a loro, vestita in modo identico a loro, c’è un’unica ragazza europea, che ha in braccio un fagottino, un neonato nero di due sole settimane, un prodigio di tenerezza e bellezza. “È il mio quarantaquattresimo figlio”, dice scherzando. Si chiama Katiuscia, è italiana, ed è un po’ mamma ed un po’ sorella per le ragazze che l’attorniano e le dimostrano in modo visibile il loro affetto. Fino al 2004 era una brillante dottoranda di Oncologia al Centro tumori, e, prima di recarsi al lavoro, ogni giorno si fermava alla s. Messa. E tuttavia avvertiva una profonda dissonanza, che la riempiva di disagio, tra la preghiera del Padre Nostro che recitava quotidianamente e la sconcertante realtà della prostituzione che, altrettanto quotidianamente, si offriva al suo sguardo nel tragitto che percorreva. “Mi sono chiesta, dice Katia: o non c’è un Padre Nostro, o queste ragazze sono mie sorelle. E se, vedendole, passo oltre, sono né più né meno che il levita di cui parla Gesù nella parabola del Samaritano”.
Così, attraverso un’Associazione di Volontariato presente sul territorio di Torino, Katiuscia comincia ad avvicinare le schiave di oggi, offrendo loro amicizia e la possibilità di abbandonare la strada. Ad ottobre 2008, mette a disposizione il suo appartamento, che ad un certo punto non basta più: e la Provvidenza mette sul suo cammino l’incontro con la realtà dell’Associazione Papa Giovanni XXIII, che da anni opera in questo settore, Katia chiede di iniziare il cammino in Comunità. Al momento è infatti referente di una casa di accoglienza, in un luogo protetto, in cui sono state ospitate moltissime delle ragazze vittime della tratta, solo nell’anno appena trascorso, ben cinquantotto ragazze. “Per cinquantotto volte, sorride, si è ripetuto il miracolo di una telefonata che dice: «Mamma, non voglio più stare qui… venite a prendermi»”. Conscia delle spietate ritorsioni con cui il racket che gestisce questa moderna ed agghiacciante forma di schiavitù colpisce coloro che ne ostacolano gli “affari”, le manifesto la mia ammirazione per il suo coraggio. “Certo, dice, qualcosa si rischia. Ad alcune madames abbiamo sottratto tutte le due o tre ragazze che soggiogavano: e considerando che ciascuna «vale» circa cinquantamila euro, è un colpo notevole. Tuttavia, prosegue, i nostri numeri, seppur altissimi in termini di vite umane, sono ancora purtroppo trascurabili rispetto a quelli del racket. Sono consapevole, comunque, che prima o poi potremmo iniziare a dare fastidio”. Si ferma un attimo, e mi guarda negli occhi con uno sguardo pieno di decisione, dolcezza e serenità: “Io sono molto felice, aggiunge. Qualcuno mi chiede come ho fatto a lasciare ciò che avevo… ma ora sono tanto felice”.
È forse una dichiarazione superflua, vedendo la luce che si sprigiona il suo sorriso, ma serve per avvalorare quanto sta per sostenere: “Io penso che la mia vita valga come quella di una di queste ragazze. E se io mi trovassi nella loro situazione, veramente orribile, sarei felice di sapere che qualcuno rischia la sua vita per me”. Le ragazze che grazie all’incontro con i giovani dell’Unità di strada hanno scelto di lasciare la strada sanno tutto questo: misurano la differenza tra ciò che hanno provato e ciò che vivono, comprendono che è solo l’amore a spingere Katia e gli altri volontari, e spesso ne sono talmente toccate che trovano il coraggio di tornare con loro su quelle strade da cui sono fuggite, per convincere le ragazze che ancora vi si trovano ad abbandonare quella vita. Katia non ha esitazioni: “Non ho mai trovato nessuna di loro che si prostituisse per scelta”. Così è stato, infatti, per Judith (i nomi sono di fantasia), che è in Italia dal 1999, ed era schiavizzata con il pretesto che doveva ripagare le spese sostenuta dagli sfruttatori per farla arrivare nel nostro Paese. In Nigeria, sua terra natale, Judith aveva una famiglia credente, che non ha mai saputo nulla della situazione che ha trovato qui, né del “lavoro” che esercitava: lo sguardo le si vena di tristezza quando parla del suo figlio, ora quattordicenne, che l’aspetta in Africa e mai dovrà sapere ciò che è accaduto in Italia. Lo sguardo torna fiero e sereno quando dice, sorridendo nella speranza: “Sogno un lavoro vero, normale, come tutti… perché Dio è grande, non ci lascia mai e ci segue sempre”. Su uno dei pannelli appesi nello spazio della festa ci sono delle frasi di don Benzi, che sosteneva l’incongruenza del chiamare “clienti” coloro che approfittano delle ragazze: quando non c’è parità tra le persone, c’è sfruttamento e schiavitù, non “un lavoro come un altro”, “il mestiere più antico del mondo”.
Gli fa eco Antonio, il responsabile del servizio anti-tratta a Torino: “I clienti sono complici. Noi parliamo anche con loro, ma dobbiamo usare i termini giusti”. Sia lui sia Katia, dal palco della festa, invitano i presenti ad “aprire il cuore, perché ce n’è tanto bisogno”: “Non possiamo passare in macchina e gettare solo sguardi di sufficienza”. I loro sguardi sono sguardi che sanno vedere in una prostituta una sorella. E così mi regalano anche la testimonianza di Lucy (altro nome di fantasia), una bella giovane dal sorriso forte anche se segnato dal dolore. Ha steso un manoscritto in inglese, che contiene la sua storia. Inizia senza molti preamboli: “Lasciare la Nigeria per l’Italia, per lavorare nella strada… non era ciò che mi avevano promesso prima che venissi”. Nel suo testo, in modo davvero toccante, Lucy parla sempre di “lavorare nella strada” o – al massimo – di “dormire con degli uomini”, come se non riuscisse neppure a formulare in altri modi la realtà degradante a cui era costretta. L’avevano convinta con una serie di promesse: avrebbe gestito un negozio etnico di merce africana, per aiutare la sua famiglia, composta da tre fratelli, due sorelle, sua figlia e sua mamma: il padre è morto da tanti anni, e c’era bisogno urgente di un aiuto economico. Giunta in Italia, l’hanno segregata in un appartamento, e Lucy si chiedeva quando sarebbe iniziato questo famoso lavoro in negozio; la “Madame” prendeva tempo sostenendo che c’erano ancora degli aspetti da sistemare. Una sera, finalmente, le dice che oggi inizierà il suo lavoro, e la caricano in macchina. Il racconto di Lucy prosegue con un’agghiacciante semplicità: “Ho visto altre ragazze lì, e lei ha chiesto ad una delle ragazze di insegnarmi a lavorare, e io ho chiesto che tipo di lavoro, e lei ha detto dormire con gli uomini. Dormire con gli uomini è il lavoro che ha per me. E che io dovevo sapere che lei ha pagato per portarmi qui e io devo lavorare per ripagarle i soldi”. Inizia da lì una serie di violenze, torture, violazioni della dignità e privazioni della libertà: schiaffi, botte, niente cibo quando non portava abbastanza denaro. Una sera vengono sulla strada alcuni “giovani bianchi”, come scrive Lucy, “ragazzi e ragazze, per supplicarci di andare con loro, e che ci aiuteranno”.
Lucy ne accenna alla “Madame”, che subito corre ai ripari: “Mi ha detto che stavano mentendo, che mi illudevano, e che se li avessi seguiti mi avrebbero portato alla polizia, e da lì mi avrebbero rispedito in Nigeria dove avremmo continuato a soffrire e saremmo morti di fame”. Il testo di Lucy, a questo punto, si rivolge direttamente al lettore, con una franchezza disarmante: “Voi forse non sapete cosa vuol dire stare in piedi al freddo o sotto il sole per lavorare. Voi non sapete cosa vuol dire dormire con tanti uomini per poter vivere”. Non ne poteva più: “Ero stanca, e cercavo aiuto, e non avevo nessun posto in cui andare. Non hai più né madre, né padre, né fratelli… ero tutta sola qui. Ho dovuto correre per andare alla stazione dei treni a cercare aiuto. Un uomo bianco mi ha chiesto se davvero cercavo una mano, e mi ha indirizzato dove potevano aiutarmi, dove avrei incontrato le mie sorelle nere”. Lucy corre, arriva, suona il campanello della Casa di Pronta Accoglienza: le dicono che purtroppo è tutto pieno, ma che parleranno con Katia. “Quando le hanno telefonato, senza avermi vista, lei ha detto loro di farmi aspettare perché stava venendo. Quando è venuta, mi ha abbracciato e mi ha detto che era tutto OK. Quella sera abbiamo cenato insieme, pregato insieme, e lei ha cercato un posto dove potevo dormire. Mi hanno dato da dormire, da mangiare, da vestire, e soprattutto tantissimo amore”. Anche se il testo di Lucy è scritto in un inglese semplice e senza pretese letterarie, non si possono leggere queste righe senza provare un brivido.
“Adesso, «mamma» Katy sta facendo in modo che io possa andare a scuola, dove mi insegneranno l’italiano, e poi vorrei andare ad una scuola professionale, sistemerò i documenti che potrò usare per lavorare, essere pagata ed aiutare la mia famiglia in Nigeria”. “Voglio andare a supplicare le ragazze nelle strade di credere che queste sono persone buone, che non le porteranno indietro in Nigeria, che vogliono aiutarle e renderle persone migliori. Vi sto dicendo la verità, prosegue, mi hanno mostrato amore, tenerezza, mi hanno dato speranza e mi hanno detto che potevo vivere una vita migliore. Io prego Dio onnipotente di dar loro ancor più forza, grazia ed amore per continuare il buon lavoro che stanno facendo nel nome di Gesù”. E davvero, a leggere queste parole, non si può non condividere le affermazioni di don Benzi: “Nessuna donna nasce prostituta: c’è sempre qualcuno che la fa diventare”. E incontrando lo sguardo limpido e profondamente innocente di ragazze come Lucy e Judith, si comprende la parola di Gesù sulla “pole position” riservata a queste donne nel Regno dei Cieli.
Chiara Bertoglio
Articolo partecipante al premio giornalistico La Voce della Bellezza e pubblicato su La Voce del Popolo
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