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La Bellezza non è solo nella tradizione

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28/12/2015

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La Bellezza non è solo nella tradizione

Passeggiando tra le vie del quartiere di San Gregorio Armeno di Napoli, tra un Maradona-re magio e un Renzi-pastore, rapiti dai suoni, dalle grida, dalla folla che quasi impedisce lo sguardo e il movimento autonomo, i turisti sorridono un po’ inebetiti come se l’attrazione più grande fosse “l’atmosfera” e non la merce esposta. Stessa situazione, agli antipodi geografici e culturali, in uno dei mercatini di Natale di Merano, ai piedi delle Alpi trentine, dove tra vin brulé e vetro soffiato si avanza placidamente nell’atmosfera di festa nordica senza schiamazzi, senza ressa, in una dimensione quasi fiabesca tra un fiume gelato e le cime innevate oltre i tetti di legno. O ancora: tra i presepi viventi dell’Irpinia e le ricorrenze per la befana a Roma, nel suono delle zampogne là dove ancora resistono ai Jingle Bells storpiati e nelle pasticcerie piemontesi tutto ciò che per semplicità – e convenienza – chiamiamo tradizione, genera le particolarità che spesso ci fanno storcere il naso quando sentiamo che “tutto va male”, che “siamo sull’orlo della decadenza” e che “abbiamo passato il segno”.

Chi se ne frega – insorge l’orgoglio un po’ sciovinista – se ci dicono che tutto va male: alla fine ci restano la nostra autenticità, le differenze che dall’estero amano e odiano (però sempre affascinano) e la consapevolezza di avere qualcosa in più degli altri. Perché altrimenti tutti verrebbero a visitare il nostro Paese? Per la bellezza dei luoghi, per l’incredibile varietà naturalistica, per la storia, l’arte, la cultura e quindi i musei, i palazzi, le chiese ecc. Per lo stesso motivo che ci ha fatto accogliere freddamente “La Grande Bellezza” di Sorrentino, o magari detestarla un po’, anche se, bisognava riconoscerlo, era girato bene.

Spesso, sembra che siano gli italiani stessi a voler relegare il proprio Stato a una dimensione di museo malgestito, una sorta di Pompei istituzionalizzata dove poco importa se una domus stia cadendo a pezzi fino al momento in cui, effettivamente, non crolla ed è troppo tardi. Allora si scatena il coro delle critiche all’amministrazione vigente, partono le inchieste della magistratura e i commenti sui social network, qualcuno è invitato a dimettersi da qualcun altro che non si dimetterà mai e via via si ripropone il circo mediatico al quale siamo abituati.

Eppure, non c’è solo questa Italia: c’è chi considera la bellezza che ci circonda come eredità da rispettare e, quindi, responsabilità. E forse sarà strano leggerlo ma non si tratta di artisti, intellettuali o critici – non solo di questi almeno – ma di imprenditori e artigiani; giovani che riscoprono mestieri antichi o intere famiglie che portano avanti marchi secolari. Anche questi sono parte integrante delle specificità che enumeravamo all’inizio, anche i cosiddetti “marchi” hanno contribuito a diffondere l’idea dell’unicità italiana, aggiungendo al folklore e alla tradizione popolare un’idea di conservazione dinamica. Non solo reliquia da museo, insomma, ma prodotto di qualità, a volte unico, riconosciuto come tale e, pertanto, valutato adeguatamente. Avulso dalle logiche del mercato globale e quasi anacronistico per la sua capacità di adattarsi ai decenni come pochi altri nel mondo, persino alle grandi crisi economiche come quella del ’29 o l’altra che ancora scontiamo. Oggi si direbbe resilienza ma forse non c’è bisogno di scomodare questo termine, per altro abusato, al fine di spiegare il successo di un modo di fare che rientra sotto il cosiddetto made in Italy e rappresenta il 16,5% del Pil, ovvero 240 miliardi di euro, generati dal turismo, dall’industria creativa e dalla somma delle attività culturali e di formazione.

Senza retorica, si tratta di passione e di necessità. Come spiegare, ad esempio, la sopravvivenza della Pulcinoelefante, una casa editrice che produce libri unici, manufatti dalla carta alla stampa dei caratteri passando per i contenuti in un mondo in cui Mondadori compra Rizzoli e Feltrinelli ottenendo quasi il 35% del mercato italiano dei libri? Bisognerebbe parlarne  con i teorici dell’utilitarismo, del mercato globale e dell’economia di massa. Eppur si muove, disse Galileo, eppure esiste, diremo noi.

Qui di seguito, in un’intervista al Corriere della Sera, Alberto Casiraghi racconta la sua esperienza come editore di libri ineditabili ed è proprio da lui che partiremo nel nostro racconto di esperienze e professionalità che contribuiscono a diffondere l’idea che la bellezza non sia soltanto scultorea, statica rappresentazione di un mondo che fu, ma possa diventare spinta creatrice anche nel mondo del lavoro. Quello stesso lavoro che ancora oggi, anche se in altri termini, è sfruttamento subito o inferto, può trasformare un’idea in uno strumento di guadagno e, allo stesso tempo, arricchire la realtà circostante con quel valore aggiunto che, ancora una volta, chiameremo Bellezza.

 

Sabato Angieri

 

 

Dal Corriere della Sera dell’11 Dicembre 2015, Paolo di Stefano

 

La definisce un’esperienza più antropologica che editoriale. Ed è giusto, perché dentro il primo aggettivo c’è l’essere umano, l’incontro, la cultura in senso più ampio. Alberto Casiraghi ha la faccia buona di chi dà senza chiedere. Da quasi 35 anni dà al mondo libretti inconfondibili, che uno dei suoi maestri, il grande Vanni Scheiwiller, definì «miniedizioni per libridinosi», o «ghiottonerie per spiriti liberi».
Il padre di Scheiwiller, Giovanni, inventò il Pesce d’oro, collana tra le più preziose del secolo scorso. Casiraghi ha creato, in un pomeriggio ventoso del 1982, il Pulcinoelefante, una casa editrice domestica che stampa plaquette su carta Hahnemühle prodotta in Germania e tagliata a mano: «Guarda che eleganza, a toccarla sembra un’ostia». Sono due fogli 26×19 piegati al mezzo in modo da formare un libretto di 8 pagine e tenuti insieme da una cordicella: la copertina porta sempre il marchio del piccolo animale fantastico che è il Pulcinoelefante; la terza pagina porta il testo, preferibilmente brevissimo; la quinta un’opera d’arte originale; la settima la data e il numero delle copie stampate: mai più di 40. Il resto è un bianco morbido tra neve e panna che abbaglia e accoglie. «Libretti unici» che nascono dal gioco, dall’amore della poesia, o piuttosto, come ripete quello spirito stralunato e gentile del Casiraghi, dalla «gioia del bello».

Un editore che più domestico non si può. Osnago, in provincia di Lecco, immersa nel nebbione della Brianza: una casina anni Trenta su tre piani, giardinetto incolto, sculture e oggetti ovunque, quasi tutto tenuto allo stato brado, in una crescita spontanea per accumulazione, non solo all’esterno ma anche dentro, passando per il corridoio e poi accedendo nella sala con cucina, in un sommarsi di cose su cose ovunque, maschere su maschere, carte su carte, senza premeditazione. Il tutto, compreso un grosso gatto che si chiama Signor Igor, scaldato da una vecchia stufa a legna. È bellezza anche questa, e Alberto lo sa. Sessantatré anni, giacca pesante di lana, berretto a papalina, liutaio e violinista da ragazzo, poi disegnatore, tipografo alla Same, in piazza Cavour a Milano, nelle stesse stanze in cui ogni tanto spuntava Montanelli a impaginare. Infine autore di «aforismi quieti e inquieti» ed editore in proprio, con un solo impiegato-operaio-tuttofare alle sue dipendenze, se stesso. Il che significa libertà massima.

Con quel mostro di macchina datata Audax-Nebiolo, una specie di scarafaggio nero, datato 1960, che per farlo entrare in casa Alberto ha dovuto sfondare una porta: «La stavano buttando via e ho capito che era la macchina per me». E «ostrega» è una delle parole che Casiraghi si lascia sfuggire più spesso nel raccontare la sua impresa e nel ricordare tutti i nomi che sono transitati di qua. Si comincia dal «Ravasone», cioè il cardinale, che è un compaesano «molto amico di papà, l’idraulico del paese»; si passa per Bruno Munari, per Maria Corti, per Roberto Cerati («un fratello maggiore»), per Sebastiano Vassalli («per quindici anni è venuto qui a Ferragosto»). E il giovane Maurizio Cattelan. Dei novemila Pulcinielefanti partoriti da quel lontano pomeriggio ventoso, centinaia sono firmati da Alda Merini: aforismi soprattutto.

La poetessa matta era di casa qui a Osnago: «Una notte abbiamo anche dormito qui insieme, ostrega». Siamo al secondo piano, nella stanza da letto dove è conservato, sotto vetro, l’intero catalogo pulcinelefantesco. E dove ci sono tutti o quasi, vecchi e giovani, artisti e poeti, scrittori e pensatori: Schwarz, Dorfles, Manganelli, Baj… Zanzotto, Sanguineti, Pivano («in cambio di un Pulcino mi invitava a pranzo al Rigolo»), Ceronetti, Baldini, Lamarque… Ma anche Aristotele, Virgilio, Agostino, Dante, Leonardo fino a Novalis e Pound. Perché ci vuole anche un po’ di megalomania per inventare la bellezza. «Che cos’è la bellezza? Riuscire a vedere anche nel torrente qualche pesciolino che guizza felice». Frasi, versi accompagnati da incisioni su legno di bosso, pastelli, acquerelli, oro e foglie, sacchetti con polvere di azzurro, xilografie, fotografie, graffiti, astucci, orecchini, reliquie. Se ne sono accorti a New York, a Tokyo e a Berlino, dove i Pulcini sono stati in mostra. «In Indiana volevano tenermi per fare dei corsi in università, ma io qui avevo due capre in giardino e non potevo lasciarle sole». «L’uovo ha una forma perfetta benché sia fatto col culo», ha scritto Munari. È una delle frasi più amate dal Casiraghi, il nipotino di Bodoni che non si stanca di aprire cassetti e mostrare i suoi cubetti di piombo (Garamond, Times…), che chiama «i miei gioielli». Grazie alla loro magia Alberto ha potuto obbedire al consiglio di Pindaro: «Diventa ciò che sei».

 

 

 

 

 

 

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