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Il mito romagnolo tra grandezza a caducità

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28/11/2012

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Il mito romagnolo tra grandezza a caducità

La bellezza della Romagna è racchiusa come in uno scrigno nelle sue manifestazioni più discrete, meno appariscenti, forse meno conosciute. Non sta nelle luci stroboscopiche (o nelle loro più moderne evoluzioni) che lampeggiano nelle discoteche, non sta nella patina che attira i turisti a Milano Marittima o a Riccione, non sta neanche nei suoi cibi più  commercializzati come la piadina e i cappelletti, o negli eventi spettacolari che radunano in riviera milioni di persone. Non sta neanche nell’attenzione per l’aspetto più esteriore e sensibile che colpisce per primo l’infinita ricerca dell’essere  umano. No. La Bellezza della Romagna sta sospesa nel tempo, fra un passato mitologico che forse non è mai esistito ed un presente che però di questo ipotetico passato è solo riflesso, come  immagine allo specchio. Se non esiste il mito, non esiste l’uomo, insomma. Ed il mito romagnolo, affondato in ere di cui abbiamo perso il filo, traccia un’estetica ben precisa. Un’estetica  che rimanda alla grandezza dell’uomo, delle sue potenzialità e delle sue costruzioni, ma nello stesso tempo, come in un universo di contraddizioni, anche della pochezza di tutto questo. Grandi potenzialità, grande caducità. Dovevano saperlo molto bene quei romagnoli che accolsero gli imperatori romani, gli uomini più potenti del mondo, e che ebbero modo di viverne dodici generazioni che si susseguirono. Sempre meno “divi” e sempre più umani. Ma dovettero avere grande coscienza dell’abisso e della vetta che convivono nell’uomo anche quei fortunati che poterono accogliere Dante nel suo esilio romagnolo. Ed è forse lì che si devono esser resi conto che nell’uomo convivono l’inferno e il paradiso, e da qualche parte anche il  purgatorio. Sarà per questo che ancora oggi l’animo romagnolo è sospeso fra due estremi: la grandezza e la piccolezza. Ed è proprio incastrato fra questi due poli che se ne sta placido ed immutabile il nostro lato più bello. Quando un romagnolo vede la grandezza umana si ricorda subito della sua pochezza, e non si monta la testa. E quando si trova ad avere a che fare con la pochezza, subito salta alla mente la grandezza, e tutto ritorna ad avere il giusto peso. Per cui ricchi e poveri, uomini e donne di successo e persone inconcludenti sono in realtà accettate nello stesso identico modo. Questa terra è stata solcata dal passaggio di alcuni grandi della storia. Ha iniziato Cesare, hanno continuato gli imperatori romani, poi gli arcivescovi, i Papi e i sovrani tedeschi. È stata terra di statisti e condottieri, magnati dell’industria e campioni dello sport, tutti partoriti dal suo ventre fecondo. E tutti uniti da una caratteristica: l’uguaglianza vissuta nei fatti. Quando Raul Gardini, allora ai vertici dell’economia italiana ed internazionale, arrivava in pasticceria in bicicletta, o quando Benigno Zaccagnini, allora a capo della DC, con la DC al potere, si mischiava senza troppi complimenti alla gente comune, non facevano altro che affermare un principio che è incastonato del cuore romagnolo. Un principio che si potrebbe riassumere  così: cose grandi e cose piccole sono la stessa cosa. Sono la cornice dell’uomo. Non sono ciò che conta. Quello che conta è ciò che sta al centro. L’uomo, appunto. Ecco perché ancora oggi, in questo mondo nuovo che si affaccia ogni giorno di più nelle  nostre quotidianità, negli occhi di molti romagnoli si ritrova ancora serenità e pace. Condizioni garantite dall’immunità alla superbia. Condizioni che non vengono scalfite dalle certezze che crollano, né dal mondo che cambia. Tutto questo, anche se molti ancora lo negano, ha  una profonda radice nella storia, in quella fede cristiana che ha plasmato il cuore dei  progenitori. Ed è sopravvissuto allo scorrere delle ere per arrivare intatto sino ad oggi. Miracoli. Prove dell’esistenza di Dio, per qualcuno. O almeno prove dell’esistenza dell’Uomo, per  qualcun altro. E tutto questo lo dobbiamo alla selezione estetica che abbiamo  imparato a fare dai nostri genitori, che lo hanno imparato dai nostri nonni in una catena senza fine che chissà dove arriva. Una selezione al rialzo: tenere le cose che contano, che “sono”, trattare con lievità quelle che passano,  che “appaiono”. Questo è riassunto in modo sublime nella Basilica di San Vitale a Ravenna. Così bassa, dimessa e ordinaria all’esterno. Così sublime da essere mozzafiato all’interno. E se  non è Bellezza questa…

(Paolo Gambi)

Articolo partecipante al premio giornalistico La Voce della Bellezza e pubblicato su La Voce di Romagna

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