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“Faccia d’angelo” Maniero: un boss non è un eroe

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05/11/2012

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“Faccia d’angelo” Maniero: un boss non è un eroe

E’ uno  dei   protagonisti di questa storia. Anzi, in qualità di mandante e regista, ne è, per certi versi, il protagonista assoluto. Felice Maniero parla della rapina del Mento del Santo. È la prima volta che racconta la sua verità, a vent’anni di distanza, su quell’episodio. In precedenza lo ha fatto solo davanti ai giudici, nel corso degli interrogatori resi durante la «collaborazione» iniziata nel 1994. Tra l’altro, per confermare quanto già svelato dai sodali che l’avevano eseguita. Maniero  oggi  ha  la  stessa «faccia d’angelo» di allora, gli stessi  occhi vivaci  e  intelligenti di quand’era un criminale  spietato  che  seminava il terrore in tutto il Nordest. Lo  stesso  volto,  ma  un’altra  identità  e una  nuova  vita. L’ex «boss» vive in una località segreta. Fa l’imprenditore, ha un’azienda  con una quindicina di dipendenti. Le sue priorità sono la famiglia e il lavoro. C’è chi continua a non credere nel suo ravvedimento. In ogni caso ci è sembrato giusto  dar voce anche alla sua versione dei fatti. 

Sono trascorsi vent’anni dalla  rapina  del  Mento. Perché ha deciso di parlare per la prima volta pubblicamente di quel fatto?

La ragione principale è quella di poter riparare, anche solo per la miliardesima  parte,  al  dispiacere che ho provocato ai fedeli. Poi per il giornale su cui uscirà l’intervista.

Di chi fu l’idea del furto? E perché rubare proprio la Reliquia di sant’Antonio?

In quel momento  avevo un grave problema da risolvere: mio cugino Giuliano era stato appena arrestato, rischiava almeno dieci anni di carcere e io non potevo sopportare una simile eventualità. Dovevo farlo uscire di lì, in qualsiasi modo. Avevo pensato di tutto: di farlo evadere, di andare  a liberarlo, di rubare qualcosa di eclatante per poi effettuare lo scambio, di corrompere qualche magistrato. Dovevo decidere in fretta. Mi sentivo responsabile e questa, per me, era una situazione quasi soffocante. Un giorno, mentre chiacchieravo con Giuseppe Pastore (un fedelissimo di Maniero, ndr), lui mi disse «Feli, il Santo a Padova!». Mi brillarono subito gli occhi. Era una delle  rarissime opere d’arte, venerata dal mondo intero, con cui avrei potuto chiedere  lo scambio. Senza indugi chiamai un altro mio cugino, Giulio, e altri del gruppo: Andrea Batacchi, Stefano Galletto e Andrea Zammattio. In pochi giorni organizzai la rapina che venne messa a segno.  Ottenni quello che  mi ero prefissato. Dopo la  consegna della Reliquia, Giuliano venne scarcerato”.

In ballo, nella trattativa, c’era però un’altra  questione  per lei importante: la sorveglianza speciale.

All’epoca ero sottoposto alla misura di prevenzione. Nella trattativa, oltre alla liberazione di mio cugino,  inserii  la revoca di quel provvedimento. Ma a me, in via prioritaria, interessava far scarcerare Giuliano.  Come «anticipo» dello  scambio mi venne data la possibilità di uscire da Campolongo Maggiore per motivi di lavoro. In seguito avrebbero dovuto revocarmi il provvedimento,  che sarebbe scaduto entro pochi mesi. Questa promessa non venne mantenuta. Era prevedibile, avevano già la Reliquia.

Di quanto accaduto quel 10 ottobre 1991 si sa più o meno tutto. C’è ancora qualcosa che non è stato detto?

Un particolare, se non  ricordo male, inedito, è che io avevo ordinato di prendere la Lingua di sant’Antonio, molto più «sostanziale» per lo scambio. Invece, quegli zucconi mi arrivarono con il Mento. A loro non dissi nulla. Dentro di me, però, feci questo pensiero: per prendere la  eliquia sbagliata, di sicuro devono averritenuto, come tutti noi, che la lingua fosse dentro la bocca. Negli intenti, e poi nei fatti, quell’azione ebbe il risalto e l’eco voluti.

Lei  conosceva il Santo  prima di allora?  C’era,  per caso, qualche altro  elemento, ad esempio devozionale, che legava lei o la sua famiglia a santAntonio?

Tutti i miei familiari, parenti compresi, sono cattolici praticanti,  ma  nessun  collegamento. Sono un appassionato d’arte. Avevo già visitato la Basilica  almeno tre, quattro volte. Non con cattive intenzioni, sia chiaro, ma solo per godermi le sue bellezze archi- tettoniche e artistiche. Quando Pastore pronunciò la fatidica frase, la mia mente ave- va già  elaborato  tutto, con- clusione compresa.

Nemmeno  un attimo  di titubanza, allora, per il Santo  più venerato nel mondo?

No, nessuna.  Allora  ero un non credente in assoluto. Per quanto  riguarda,  poi, il  rispetto per il Santo e i credenti, quando si è dall’altra parte la parola «rispetto»  è sconosciuta.

Nelle ricostruzioni si racconta che la Reliquia  è stata riposta in un sacco e nascosta sotto terra. Vi è rimasta tutto il tempo?

Appena  rubata,  la Reliquia venne portata in uno dei no- stri covi. Nel frattempo si vo ciferava  del  suo  valore. Mi giungevano voci del tipo: «Il reliquiario è tutto incastonato di pietre preziose,  chissà quanto varrà». Allora chiamai mio cugino Giulio e andammo a  prenderla  per  metterla subito al sicuro. La impacchettammo perfettamente, al riparo da qualsiasi infiltrazione d’umidità e la seppellimmo lungo l’argine del Brenta. Dove peraltro rimase tutto il tempo, fino al momento della  riconsegna. Un fatto è cer-to: nel caso non avessi ottenuto quello che chiedevo, la Reliquia sarebbe stata riconse- gnata ai frati. Non l’avrei mai venduta per portarmi a casa un bel po’ di soldi. Non era quello il mio obiettivo.

Con questo crimine lei aveva anticipato una strategia che,  pur diversa  nelle  modalità (le stragi mafiose del 1993 a Firenze e a Roma contro luoghi simbolo delle istituzioni e della cultura), innescava ugualmente un braccio di ferro con lo Stato, costretto a trattare,  a scendere a patti con la criminalità.  A posteriori è convinto che fosse l’unica strategia perseguibile?

Per quanto riguardava me, ricattare lo Stato e ottenere ciò che chiedevo era  a dir poco eccitante. In ogni caso, ero lontano anni luce, anche solo nell’intenzione, dal fare del male a chicchessia. Sì, in quel momento  era l’unica soluzione per  ottenere  favori  concreti. Diventando  confidente (Maniero è stato, e tale vuole essere definito, un «collaboratore di giustizia», ndr), pealtro cosa impensabile per me,  avrei potuto certamente ottenere favori, ma davvero non credo che avrebbero concesso la scarcerazione di una persona che rischiava non uno, bensì dieci anni di detenzione.

Si dice che lei, non altrettanto quelli della banda, non si sarebbe comunque mai sbarazzato della Reliquia.

Certo, è la verità. Alcuni giorni dopo il furto della Reliquia vennero a casa mia un primario dell’ospedale di Padova, a cui mi legava un rapporto di amicizia, e il fratello di un avvocato, con cui avevo avuto rapporti esclusivamente professionali. Non ho mai fatto i loro nomi e mai li farò per-ché il loro interesse era unicamente quello di salvaguardare la Reliquia e farla tornare al suo posto. Entrambi erano in stretto contatto con i frati della Basilica, ovviamente preoccupatissimi. Mi hanno chiesto di fare tutto ciò che era possibile per salvaguardarla. Li ho tranquillizzati dicendo che era tutto sotto controllo. Il mento del  Santo  si trovava al sicuro sotto l’argine del Brenta. Seppero il giorno dopo che l’avevo consegnato alle forze dell’ordine. Il resto, credo sia noto a tutti.

Quando  venne restituita,  la Reliquia  non aveva, nel piccolo  basamento,  uno   dei quattro  leoncini  che fu poi ricostruito. Che ne fece? Sicuramente   non  fu  rubato da uno dei  miei uomini, che  casomai  avrebbero  preso una delle bellissime pietre incastonate. È probabile che possano averlo perso durante il furto. Oltre questa ipotesi, non sarebbe leale fare altre supposizioni. Chi seguì  le fasi successive alla rapina  no al «ritrovamento»?

In assoluto, io. Direttamente e in ogni sequenza.

Lei è credente?

Purtroppo no. Anche  se, per la verità, ultimamente mi capita di «traballare» un po’. Frequento con tantissima gioia un convento di frati ad Assisi. Quando sono lì, e am- miro il paesaggio e l’architet- tura, mi sembra di stare in un altro mondo. Appena entro in convento, riesco a rilassarmi come  non mai.  I frati  han- no uno sguardo sereno, sembra sorridano anche quando non lo fanno. Ho la fortuna di fare con loro lunghissime chiacchierate, di una piacevolezza unica. Sono incuriosito, oltre i limiti, soprattutto dai racconti dei frati più anziani, dalla vita trascorsa assieme ai lebbrosi o in villaggi sperduti dell’Amazzonia. Nelle loro parole colgo la grande nostalgia per luoghi in cui, lo si percepisce subito, hanno vissuto il periodo più felice della loro vita. Nonostante sappiano chi sono e che non sono credente, avverto che, per loro, non vi è alcuna differenza. Lì, lo confesso, mi sento l’ultimo dell’universo.

Ha paura di qualcosa?

Se intende paura dovuta alla mia vita passata no, mai avuta,  probabilmente  per incoscienza.

Cè qualcosa che  non rifarebbe?

Se  ha   pazienza   potremmo parlare  per  giorni delle  cose che non rifarei. Ma, più di ogni altra  cosa,  cancellerei il momento in cui ho voluto diventare un boss. E lo dico soprattutto per i giovani del Sud  che  mi leggeranno:  ragazzi, non credete ai miti costruiti dalle cronache nere o celebrati nei vostri quartieri. Non esiste per niente il tanto decantato  «codice  d’onore» che vogliono  inculcarvi.  È solo un imbroglio per farvi cadere in una trappola da cui non uscirete più. Finirete per essere solo dei burattini nelle mani dei boss, utilizzati unicamente per i loro personali  tornaconti. E in più, statene certi, non diventerete  mai  e poi mai ricchi! Il 95 per cennto dei detenuti in Italia, oltre a non potersi acquistare nemmeno un dentifricio, ha gettato le proprie mogli e i propri  figli  nella  disperazione più totale. E anche voi giovanissimi, che non avete ancora famiglia, sarete destinati a distruggervi la vita e a diventare causa di dolore infinito. Pensate sempre  a chi vi ama: che ne sarà di loro? Questa è la cruda realtà. Ritornando al tanto decantato «codice  d’onore», sappiate che un giorno, molto probabilmente, uno del clan, che magari riterrete vostro grande amico, con una scusa qualsiasi vi accompagnerà in una trappola dove verrete uccisi a tradimento, se  non torturati prima. E sapete per cosa? Solo per intrighi tra boss, per denaro, addirittura per antipatia  o per altri  futili  motivi. E non perché avete disobbedito,  non avete  rispettato le regole o tradito. Chi, invece, lo fa, rarissimamente viene eliminato, diventa infame ed escluso dal clan. Altro che onore, giuramenti,  fratellanze! Sono dei vigliacchi, il più delle  volte  spietati  solo  con chi ha giurato loro fedeltà. Sapete qual è una  delle frasi più ricorrenti: «Qui lo Stato ci ha abbandonati, se non ci fossimo noi la gente morireb- be di fame, quelli al governo sono  i veri  delinquenti,  ba- sta leggere i giornali». È una logica  infame.  Giocano  sulla pelle della povera gente in gravi  difficoltà,  per autocertificarsi, poi, come  salvatori della patria. Loro che compiono stragi!  Loro che  eseguono e fanno eseguire feroci uccisioni! Loro che inondano il pianeta di droghe! Ragazzi, non cadete nella trappola. Non esistono guadagni facili, men che meno in quel mon- do vile, colmo di violenza e di tradimenti. Comandavo circa trecento persone. Posso assicurarvi che l’unico che ha veramente guadagnato soldi sono stato io. Tutti gli altri, compresi «bracci destri e sinistri», dopo aver patito dieci, quindici anni di galera, oggi sono senza una lira, vecchi, distrutti e disperati.

Parole forti le sue. Ma si rende  conto  che  qualcuno  potrebbe non credere a una persona che, tra i reati contestati, ha avuto proprio quello di omicidio e trafco di droga?

Certo,  ci mancherebbe!  Me ne rendo conto. Su quanto  accaduto ho reso delle confessioni alla magistratura e non esistono più dubbi  a riguardo da parte di nessun inquirente. Con l’aggiunta, poi, di innumerevoli riscontri oggettivi e  conseguenti  condanne, ormai  passate  al  vaglio della Corte Suprema. Credo che questo basti a togliere eventuali dubbi  a qualsiasi persona ragionevole. In ogni caso, su quanto  affermo ognuno  è libero di pensarla come vuole, di credermi oppure no. Oggi  che  persona  è  Felice Maniero? Nulla di speciale. Normalmente sono a casa prima delle nove di sera. Lavoro davvero moltissimo e mi piace. È una nuova sfida, anche personale, alla quale non mi sottraggo.

(Nicoletta Masetto)

Articolo partecipante al premio giornalistico La Voce della Bellezza e pubblicato sul Messaggero di sant’Antonio

 

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