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D’Amico e Ranieri per un noir shakespeariano

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31/10/2015

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D’Amico e Ranieri per un noir shakespeariano
Riccardo III

«Di che cosa ho paura? Di me stesso? Non c’è nessuno qui oltre di me» urla quasi in preda al panico Riccardo III nella parte finale del dramma shakespeariano omonimo e ghigna, si contorce, rantola Massimo Ranieri nella sua interpretazione del dramma in questi giorni al teatro Ambra Jovinelli di Roma. In divisa militare da museo dell’Arma, Ranieri recita l’ultimo atto di una tragedia annunciata ma non per questo di minore effetto. Il pubblico è stato guidato per quasi tre ore nel cuore di quell’uomo dalla grande ambizione, attore prima che personaggio, in vesti che ricordano film in bianco e nero, quadri di Edward Hopper, trame noir circondate dall’estetica decadente di un’aristocrazia in crisi. Più borghese nella sua noia, più macchinatrice, ingannevole, sporca. Ambiziosa, certo, ma malata irrimediabilmente di hybris, nelle passioni quanto negli odi, si aggira spettrale sul palcoscenico meravigliosamente costruito da Lorenzo Cutilli e adornato dalle luci di Maurizio Fabretti. Ruota come la struttura della Torre, vero punto fermo visivo e allegorico, nella quale si consumano i più efferati omicidi come se fosse un tempio macabro votato al sacrificio dei personaggi rei di non aver mai saputo davvero prendere le distanze da quel mondo infetto che essi stessi hanno contribuito a costruire. E, del resto, impenitenti: ammiccano costantemente alla morte (sempre quella degli altri, s’intende) e fumano fumano come fuochi consumati ma non ancora spenti, avviati verso l’inevitabile fine. Entrano ed escono di scena accompagnati da rulli di tamburi e squilli di corno come se ogni volta dovesse giungere la loro esecuzione. Sono inquieti e la musica ne riflette lo stato d’animo, ne scandisce i passi verso il baratro, tenendo il pubblico costantemente sul chi vive (e chi muore) e ridestandolo con colpi di pistola improvvisi. Solo un maestro come Ennio Morricone poteva riuscirci.

Tuttavia, pur con un disegno luci fenomenale, la musica creata ad hoc e la scenografia imponente, a nulla sarebbero valsi tali sforzi senza un testo ed un cast adeguati. Al primo ha pensato Masolino D’Amico, riadattando l’originale inglese in una chiave contemporanea sì ma comunque eterea, fumosa appunto. A tratti sembra di assistere ai retroscena dei nostri Palazzi del Potere se non fosse che subito, inaspettatamente, il proscenio si riveste di una patina d’antico che ricolloca la rappresentazione nell’iperuranio degli assoluti dove l’ambizione estrema imbestialisce l’uomo in maniera tanto estrema da farlo il più intelligente delle belve. “Non sono una belva, dunque”, risponde Riccardo all’inizio del dramma nel tentativo di conquistare la bella Anna a cui ha appena fatto uccidere il marito, “oh meraviglia, quando il diavolo dice la verità”, lo gela lei. Ma si lascia conquistare, lì, sulla tomba del suo defunto marito, geme con Riccardo che pure gli aveva offerto un pugnale per ucciderlo se la signora avesse voluto. Questa vanità non scema nell’aspirante re, tutt’altro, si alimenta come una fiamma che divampa nel suo cuore deforme come il suo dorso, ospite della gobba che lo rendo diverso dagli altri anche nell’aspetto. Mostruoso nell’aspetto perché demoniaco nell’animo ma, ciononostante, affascinante per quella società che non può respingerlo davvero in quanto gli assomiglia troppo. Sembra quasi che la mostruosità di Riccardo, ridotta al minimo nella messinscena di Ranieri, sia come una dichiarazione d’intenti. Lui che è il più brutto è anche il più cattivo e lo sa. Non ha paura dei suoi rivali perché sa che nessuno é cattivo come lui e, per questo, è l’unico sincero. Da qui il ribrezzo che suscita la sua figura nel pubblico, il disprezzo verso questa figura così manifestamente anti-sociale eppure socialissima: invischiata in ogni trama di quel mondo in bianco e nero dove più che l’eterna dicotomia bene-male sembrano disegnarsi infinite sfumature di grigi. Attraverso i costumi di scena di Nanà Cecchi e il testo di D’amico, queste sfumature si dipingono sui volti degli attori, ben scelti soprattutto gli uomini, che bene interpretano i loro personaggi in quel contesto così insolito eppure quasi consueto per noi che viviamo questi anni di Mafie Capitali e scandali istituzionalizzati. I broccati dai colori forti ma spenti delle donne contrastano con il loro dolore perenne e con il lutto che rappresentano così come gli smoking elegantissimi degli uomini li raggruppano in una folta schiera (de facto, ben 18 attori solcano il palcoscenico) di esemplari simili. Becchini annoiati, non piangono le morti premature dei loro nemici e lamentano appena quelle degli amici ostentando falso cordoglio, falsa amicizia, falso dolore. Allo stesso modo non piangeranno neanche la loro fine, ne colgono l’ineluttabilità e se ne sentono quasi complici e, chissà, forse in parte li conforta. L’ottimo duca di Buckingham (Paolo Lorimer) ne è il campione: servo fedele di Riccardo, dissimulatore affascinante con un volto insolitamente britannico sembra nato apposta per il ruolo che interpreta. E così come aveva tramato, sobillato, comandato omicidi, accetterà la sua fine una volta catturato quasi stoicamente. Solo Lord Hastings (Paolo Giovannucci), dopo aver vissuto nella moderazione, avrà un sussulto in punto di morte maledicendo Riccardo il sanguinario ma, forse, è se stesso che biasima, o meglio, la sua stupidità: sicuro del suo ruolo per tutto il dramma non cederà alla proposta di fuga di Lord Stanley (Antonio Rampino), suo unico vero amico, scaturita dopo un incubo premonitore.

L’unico a non avere antagonisti né nemici degli è proprio Riccardo. Ranieri riesce a rendere palese il dissidio interiore di quest’uomo ammalato di un male borghese e moderno in modo così etereo e tormentato. Lungo tutte le scene non avrà un pentimento, non vacillerà mai se non una volta, quando ormai la fine è vicina e mediante cambi di voce, di postura e di luci, assisteremo al protagonista che duella con il suo doppio fino al culmine della battaglia (che “fuori” si sta consumando davvero tra le truppe di Riccardo e i ribelli di Richmond) in cui, stremato, riconosce: ho paura.

 

Sabato Angieri

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